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giovedì 22 novembre 2012

UN' INTIMA CONVINZIONE


Non mi riesce, a proposito dell’ansia di “rinascimento” pensare a noi, esseri umani, e al nostro rapporto con Dio senza scinderlo dal rapporto che ci lega con la morte.

E’ proprio con il consolidamento del pensiero ‘umanista’ che avviene la prima vera frattura fra l’uomo e la propria morte. Certamente certi cambiamenti sono lentissimi, ma c’è sempre un inizio e un perché.

Se prendiamo gli antichi romanzi medioevali si capisce che non è contemplata possibilità diversa del morire senza averne avuto sentore o preavviso.
La morte improvvisa (così non soffro…) non solo non era contemplata, ma anzi era vista come una morte terribile al pari della peste.

L’avviso era un’intima convinzione e non certo una premonizione magica.
Era cosa molto semplice e non si trattava di piétas cristiana bensì più semplicemente di un riconoscimento spontaneo.
Ecco, il riconoscimento spontaneo della vita e del suo accadere è materia a noi tanto estranea.

Possediamo tutto, ma non ci rimane niente. Non siamo nemmeno capaci di dimenticare il mondo e di pensare a Dio anche per recitare il mea culpa.

Certo che è difficile credere, lasciarsi sopraffare dalla fortezza della fede… come abbandonarsi tra le braccia dell’innamorato. “Dio! Hai richiamato Lazzaro dai morti, salvato Daniele dai leoni: ti prego, salva anche me dai miei peccati!”

Al nostro tempo non siamo confortati nemmeno dalla naturalità della morte: quel sonno misterioso dell’essere indivisibile che attende il giorno della resurrezione, non c’e più, per davvero.

La solitudine dell’uomo davanti a questo momento è lo spazio in cui questi prende coscienza della sua individualità.
La morte, in questo tempo è in mano ai medici anestesisti: si nega la morte per salvaguardare la felicità ponendo grande attenzione alle futilità perché mettere in discussione la felicità equivale a compiere un peccato contro la felicità stessa.

… E in una società che si alimenta di ‘felicità’, dove è un dovere morale essere felici e dove la società medesima ha l’obbligo sociale di contribuire alla felicità collettiva evitando perciò ogni causa di tristezza o noia, costringendoci un po’ tutti a darci l’aria felice anche se si tocca il fondo della desolazione: si capisce che diventa molto difficile credere.

Credere, fatica quotidiana per coltivare il dettaglio che non ti faccia gettare la spugna e non tanto o solamente per tentazione a cedere a facili soluzioni o lusinghe, ma perchè nascere e ri-nascere è molto oneroso; e può starci anche il non riuscirci, il perdersi, il sentirsi svuotati di senso.

Ma la convinzione che si possa ritrovare un significato autentico della nostra esistenza è un atto di fede di grande respiro.

E serenità.


Silvia

3 commenti:

  1. Sono contento che sei tornata, cominciavo a preoccuparmi

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  2. Riflessione impegnativa, senza dubbio. Credere è sempre stato difficile ma oggi è più facile perdersi credendo pure di essere nel giusto....

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    1. Sì, è una riflessione impenativa, pesante, mi rendo conto. Tocca tasti profondi del nostro equilibrio interiore.
      Ci sono momenti in cui sono più lieve, sulle cose...

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