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mercoledì 20 marzo 2013

LINGUAGGI NON VERBALI: LA VOCE DEL CLACSON


Sono un’appassionata dei linguaggi non verbali: l’idea di capirti in silenzio mi appassiona, la possibilità di mandarti a quel paese utilizzando le rughe della fronte, anche… e l’eventualità che un paio di spalle possano mormorare: “mi piaci”,  mi fa impazzire.
…Ma non avevo considerato di essere un animale metropolitano che si muove nelllo spazio ristretto di una gabbia popolata da milioni di animali come me.
Ho assistito a un litigio memorabile:
-          “poo!”
-          “popoooo!!”
-          “Po!!! Po!!! Pooooooo”
Una lite furibonda. Sono rimasta senza parole.
Erano due automobilisti improgionati nei loro autoveicoli che si lanciavano insulti per una questione di precedenza.
Geniale.
Ora non si scende più dall’auto e ci si insulta: basta un clacson a più frequenze.
Se fossi un sociologo ci scriverei un libro. Se fossi un genio. Pure.

Allora ho pensato a lui:
“Un automobilista pericoloso e’ quello che vi sorpassa malgrado tutti i vostri sforzi per impedirglielo”.
-Woody Allen-

lunedì 18 marzo 2013

I bambini non devono sapere che si muore. O forse sì, ma solo nei film e nei videogiochi. (di Marco Lodoli)



I nostri bambini hanno una grande dimestichezza con il principio di distruzione: già a sette, otto anni hanno alle spalle una buona carriera di accoppatori di zombie, mostri, poliponi, brutti ceffi, tutti regolarmente liquidati da raffiche precise sparate nel videogioco. Loro stessi, come del resto accadeva da bambini anche ai loro fratelli maggiori e ai loro padri, spesso “muoiono”, perché colpiti a tradimento dal nemico di turno.

“Mi restano ancora sette vite”, garantisce mio figlio come un gatto, e riprende la sua battaglia immaginaria. E’ il gioco delle parti, una finzione teatrale in cui si ammazza e si crepa senza mai soffrire. In questi giorni, però, mi sono chiesto se i bambini devono avere un contatto reale con la malattia e la morte, o se non è il caso di intristirli inutilmente. Una zia sta male, e poi sta peggio, e viene ricoverata in ospedale o in clinica, smagrisce, tossisce tremendamente, la luce brillante del suo sguardo si opacizza, la sua solita allegria si spegne poco a poco. E poi, una notte, muore. C’è la camera ardente, i fiori attorno alla bara, e nella bara il corpo senza più vita, il cadavere – oh, che parola orribile. Ci sono gli amici di sempre, i parenti adulti, qualcuno piange, gli altri fuori parlano a voce bassa, ricordano, sospirano. E i bambini non ci sono, perché sono piccoli, innocenti, spensierati, perché non è il caso di farli incupire, di spaventarli. Non devono sapere che si muore, o forse sì, ma nei libri, nei film, nei videogiochi, dove si possono ancora sistemare le cose, dove nulla è veramente reale.

Il bambino deve sapere tutto, l’inglese, lo spagnolo, la musica, deve frequentare la scuola calcio, il judo, la piscina, deve migliorare, crescere, attrezzarsi per un futuro sempre più incerto: ma non deve sapere nulla della morte. Povera stella, lo vogliamo far piangere per zia? Non è meglio che se la ricordi simpatica e splendente, mirabilmente viva? E’ una rimozione profonda, la perdita della dimensione metafisica, assoluta, verticale: senza il contatto con la morte, la vita può confondersi, perdere la giusta valutazione degli eventi, imbrogliare la gerarchia dei valori. Credo che l’assunzione interiore dell’idea della morte non peggiori l’esistenza, tutt’altro, rende prezioso ogni giorno, ogni momento, abbassa ogni presunzione e ogni superbia, ci fa sentire parte della grande famiglia dei viventi – esseri umani, animali, alberi – destinata goccia a goccia a svanire e a ricrearsi.

Chi ha visto e capito la morte, ama la vita, perdona, avverte l’unità del tutto, l’energia che ci lega e ci slega. Il bambino che non ha visto, l’adolescente che non ha meditato, hanno perso un’occasione per avvicinarsi di più al senso ultimo dell’esistenza. Se viviamo nella distrazione, moriremo nell’insensatezza.
18 marzo 2013

mercoledì 13 marzo 2013

INTIMITA' E PASSIONE: domenica delle palme



“Gesù sapeva che era venuto per lui il momento di lasciare questo mondo e tornare al padre…” (GV 13,1).

Mi viene quasi il magone.

Gesù parla al popolo, ma esso è fatto di persone che per esistere e lasciare traccia di sé, deve poter seminare le proprie ricchezze così come le proprie miserie; grano e zizzania; le une servono alle altre.
Miserie e ricchezze hanno lo stesso peso e brillano allo stesso modo e questo è vero e forse anche salutare, da che mondo è mondo.

“La gente circondò Gesù e gli disse: - fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Messia, dillo apertamente(GV 12,42-43).
Oramai Gesù aveva fatto tanti segni miracolosi davanti al popolo, eppure non credevano in lui(GV 10,24).
Da che mondo è mondo, appunto.

“Comunque molti cedettero in Gesù, anche fra i capi ma non lo dichiarano davanti ai farisei per non esser espulsi dalla loro comunità. Per loro era più importante essere rispettati dagli uomini che venire apprezzati da Dio”. (GV 12,42-43).

Basta, non vado oltre.

Ci piacerebbe essere sempre belli e luminosi, allegri, soddisfatti, accoglienti  e ben accolti e invece dobbiamo fare i conti con  il lato oscuro di noi, il rovescio della nostra personalissima medaglia e questo lavoro è un lavoro “sporco”. Lavorare su di sé è precisamente un lavoro di questo tipo ed è da farsi in intimità.

“Maria prese un vaso di nardo, prezioso unguento profumato di grande valore e lo versò sui piedi di Gesù; poi li asciugò con i suoi capelli e il profumo si diffuse per tutta la casa” (GV 12,3).

La passione, quel sentire che ci smuove al’’infinito e ci rende nudi; e qui possiamo scegliere se vergognarci o sentirci liberi.

I giorni che ci separano dalla Pasqua, sono forse i giorni più faticosi di tutto l’anno; fatica emotiva, naturalmente. Fatica affettiva, naturalmente, perché può essere oneroso amare e sentirsi amati come Lui ha amato noi.



Silvia, 2011


¢


martedì 12 marzo 2013

LA VOCE


Quella ‘cosa’ che ti pervade, ti avvolge, ti sazia, quel suono che non è solo un suono e che caratterizza ognuno di noi con l’unicità di un’impronta digitale.

La voce. Persone lontane e svanite nel tempo;
immagini sfocate… eppure la voce si imprime nella memoria e
rimane pressoché immutata a fermare un istante.

Più del volto poté la voce.

venerdì 8 marzo 2013

LA MELAGRANA


La melagrana, frutto antico e di passione, evoca morte, celebra la vita.
Nella Bibbia il Cantico dei Cantici descrive la sposa amata e la fecondità della Terra Promessa attraverso la metafora della melagrana.
Questo frutto esprime significati di abbondanza e amore ardente; un tempo in Turchia, le spose al termine della cerimonia nuziale scagliavano a terra il frutto maturo e il numero dei grani fuoriusciti indicavano quanti sarebbero stati i figli nati dall’unione.
In India il cibo è molto speziato e con i chicchi secchi se ne fa una spezia dal nome che non ricordo.
Sempre in Turchia, il succo della melograna è considerato una bevanda ricostituente; una volta, in un villaggio, mi hanno servito delle verdure condite con succo di melagrana e una carne di montone marinata sempre col succo di questo frutto.
Carducci la citò in "Pianto antico".
Ne hanno dipinto il frutto da Donatello a Botticelli e Dante Gabriel Rossetti ha
raffigurato una Persefone meravigliosa con in mano una melagrana.
Matisse con la sua “donna con anfora e malograni” ha toccato un picco.
Ma anche dal Medio Evo ci giungono sul tema raffigurazioni bellissime.

Se amate viaggiare andate a Granada (Spagna), e nei pressi dell’ Alhambra troverete un gustosissimo frutto di malograno scolpito come decorazione di una fontana.
Io L'arbusto lo coltivo in giardino.





UNA PICCOLA LEZIONE DI VITA


Coltivare, con le proprie mani, un piccolo giardino sul terrazzo di casa non è solo un piacevole passatempo, ma può migliorare il benessere di una persona. Esiste una disciplina, diffusa in particolare nei paesi anglosassoni, che si chiama "ortoperapia" che a particolari livelli è in grado di offrire sostegno e sollievo a persone affltte anche da gravi disabilità sia fisiche che di disagio psichico.

Premesso ciò, a me qui interessa provare ad emozionarmi davanti a un seme che germoglia anche grazie alle nostre cure.
Coltivare un piccolo giardino, anche se in vaso, è di grande utilità anche per i nostri figli che toccano con mano l'importanza e i frutti che possono nascere dal loro semplice ma costante lavoro: costanza, pazienza e sensibilità daranno sicuramente buoni frutti.

Forse, una piccola lezione di vita.


mercoledì 6 marzo 2013

IL SENTIERO DI MONTAGNA


Questa volta lascio pescare nel fondo di un lago generosissimo che è quello della mistica orientale: si tratta di una parabola che mi piace assaporare sempre  con rinnovato stupore.
E che oggi rimetto nelle vostre mani.




  

Un giorno un uomo intelligente, un erudito dalla mente acuta, arrivò in un villaggio. Al solo scopo di esercitare la sua mente e per il solo piacere dello studio, desiderava confrontare i vari punti di vista che potevano essere rappresentati in quel posto.
Pertanto, si recò di rettamente al caravanserraglio e chiese di vedere sia l'uomo più sincero del villaggio sia quello più bugiardo. I presenti furono tutti d'accordo nel designare Kazzab come il più bugiardo e Rastgu come colui che diceva sempre la verità. Egli andò a trovarli a turno e pose loro la stessa, semplice domanda: "Qual è la strada migliore per arrivare al prossimo villaggio?" Rastgu il Veridico rispose: "Il sentiero di montagna". Anche Kazzab il Bugiardo rispose: "Il sentiero di montagna". Il viaggiatore, naturalmente, rimase molto perplesso. Così si mise a interrogare altri abitanti di quel villaggio. Alcuni dissero: "Il fiume"; altri: "Attraverso i campi"; altri ancora: "Il sentiero di montagna". Egli prese quindi il sentiero di montagna. Alla questione che si era proposto di studiare in partenza si era aggiunto il problema - relativo a quella comunità - dei veritieri e dei bugiardi. Quando arrivò al prossimo villaggio raccontò la sua storia nella casa da tè e concluse con queste parole: "Evidentemente ho commesso un imperdonabile errore di logica, chiedendo i nomi del Veridico e del Bugiardo alle persone sbagliate. Sono giunto qui senza difficoltà attraverso il sentiero di montagna".
Un saggio ivi presente prese la parola; "Bisogna ammettere che i logici tendono a essere ciechi e devono sempre chiedere aiuto agli altri . Ma non è questo il punto. Il fatto è che, dal momento che il fiume è la strada più faci le, il bugiardo t i ha suggerito di prendere il sentiero di montagna. L'uomo
veridico non era soltanto veridico: aveva notato che avevi un asino e ciò facilitava il viaggio. Si da il caso che il bugiardo non si era accorto chi non avevi la barca, altrimenti ti avrebbe suggerito di prendere la strada del fiume".



* * *
"La gente trova impossibile credere nella realtà delle capacità e dei doni dei Sufi . È proprio questa gente che non sa che cos'è la vera fede. Crede a tante cose che non sono vere, per abitudine o perché sostenute da eminenti personaggi.
"La vera fede è un'altra cosa. Coloro che sono capaci di credere realmente sono coloro che ne hanno avuto l'esperienza. Una volta/atta l'esperienza [...]
il semplice racconto delle capacità e dei doni non è di alcuna utilità". Queste parole, attribuite a Sayed Shah Qadiri, che morì nel 1854, sono talvolta citate come introduzione a "Il sentiero di montagna".



( Parabole Sufi: Mullah Nasruddin)

Silvia



sabato 2 marzo 2013

L'AMICO DEGLI ELEFANTI


Sarà capitato a qualcuno di voi, almeno una volta nella vita, di visitare uno zoo.
Certo ai giorni nostri una spiccata coscienza ambientale ha contribuito non poco a rendere questi luoghi molto più accoglienti per gli animali di quanto non fosse nei tempi passati e chiunque abbia frequentto uno zoo ha certamente delle storie e delle suggestioni da raccontare; personalmente ogni volta che entro in uno zoo come per magia mi pare di trasformarmi nell’animale che sto ammirando e mi lascio coinvolgere in magnifiche avventure: dalla tarantola col ginocchio rosso che potrebbe annientarmi in pochi secondi all’incontro ravvicinato con il rinoceronte dalla corazza ruvida e calda.
Ma c’è una figura che ho sempre ammirato più di altre e non si tratta di un animale ma di colui che si prende cura degli animali e precisamente degli elefanti.
Vi siete mai avvicinati a un elefante quanto basta per sentirne l’odore, accarezzarne la pelle pelosa e farvi avvolgere dalla proboscide?
L’elefante è grosso, rugoso, lento e disciplinato: compie movimenti accurati e mirati, a dispetto dell’aspetto pachidermico. E’ intelligente e sa essere affettuoso e monello: i suoi occhi ti squadrano e ti inquadrano e capiscono che tipo sei.
La sua proboscide è come un braccio lungo lungo  che ti ritrovi nelle tasche alla ricerca di qualche dolcetto; è una mano che ti accarezza un po’ insistente e ti scompiglia la pettinatura, è un abbraccio morbido e dispettoso che ti avvolge e ti stringe a sè; la proboscide dell’elefante ti afferra e ti abbraccia, ti alza, ti spintona. L’elefante è un briccone curioso che infila la sua proboscide in ogni anfratto per annusare, toccare, assaggiare.
L’inserviente che si occupa dell’elefante sa che ha a che fare con un bambinone grande e grosso, goloso, tendenzialmente pacifico ma dall’umore mutevole che non dimentica i volti e le voci.
Occuparsi di un elefante non significa solo provveere al cibo o alla pulizia: per occuparsi di un elefante bisogna accettare di diventare suo amico e di farsi importunare dalla proboscide curiosa.

VISTO DA DIETRO


Ho visto una immagine di Benedetto XVI che volge le spalle alla folla dopo la benedizione.
L’ultima da Papa.
Mi ha ricordato mio padre l’ultima volta che l’ho visto di spalle: testa canuta, spalle curve, passo incerto.
In quel momento ho colto la dimensione umana che non avrebbe avuto ritorno.: una dimensione di un uomo che aveva dato tutto per i suoi figli.